L’industria automotive italiana dà lavoro a circa 274 mila addetti, tra diretti e indiretti (dati ANFIA – Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica, 2019). Considerando solo gli addetti della produzione di veicoli, gli occupati stimati sono 175 mila, pari al 4,6% degli addetti dell’industria italiana, e lavorano su 23 impianti di assemblaggio e di produzione di motori e di batterie (dati ACEA – Associazione europea dei costruttori di automobili, 2021). La filiera, però, comprende un gran numero di fornitori, ed è molto più ampia, arrivando a occupare 13 milioni di persone nell’Unione Europea.
Il settore in Italia viene da decenni di calo dell’occupazione dovuto all’evoluzione dell’ex gruppo Fiat confluito oggi in Stellantis, che «negli ultimi trent’anni ha comportato un ridimensionamento della produzione di autoveicoli in Italia che si è ridotta dal 1989 al 2021 di circa il 78%» scrivono Francesco Naso e Leonardo Ugo Artico dell’associazione Motus-E nel primo report dell’Osservatorio sulle trasformazioni dell’ecosistema automotive italiano, nato dalla collaborazione tra il CAMI – Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e Motus‑E.
In parallelo l’occupazione ha visto una riduzione, nel ventennio 1998-2018, «pari a circa un terzo di quella della produzione degli autoveicoli nello stesso periodo», ovvero circa 36 mila posti di lavoro in meno. Ma in questo quadro c’è chi scende e chi sale: il comparto della fabbricazione di veicoli ha perso 38 mila posti di lavoro, mentre quello della fabbricazione di parti e accessori ha visto, in controtendenza, la creazione di 6 mila nuovi posti di lavoro. Merito della capacità della filiera della componentistica italiana, sottolineano Naso e Artico, di internazionalizzarsi, riducendo la propria dipendenza dal mercato interno: oggi oltre il 50% della componentistica prodotta in Italia viene venduta oltre confine. La Germania resta il principale mercato, con il 25% del totale dei flussi commerciali verso l’estero.
Questa capacità di adattarsi spiega probabilmente il sentiment orientato alla fiducia nei confronti della transizione alla mobilità elettrica, che emerge da una ricerca dell’Osservatorio TEA sugli operatori della filiera automotive. In questa survey il 55,5% delle aziende prevede che il passaggio all’elettrico avrà un impatto nullo sul numero di propri dipendenti, e addirittura il 27,7% vi vede un’opportunità, immaginando di poter aumentare il numero di addetti. Il 16,8% teme invece conseguenze negative.
Guardano soprattutto ai rischi i sindacati europei riuniti nel cartello “IndustriAll European Trade Union”, in un position paper dedicato alle conseguenze della transizione ecologica promossa dal Green Deal europeo. «Da un lato, sono in corso nuovi investimenti per trasformare le catene di montaggio, sviluppare nuovi prodotti e costruire nuove catene di fornitura in Europa, ad esempio per la produzione di batterie – si legge nel paper dei sindacati –. Il rovescio della medaglia è che questa trasformazione senza precedenti sta diventando realtà nelle linee di produzione in tutta Europa. I produttori stanno razionalizzando le loro flotte, con un impatto su molti siti e sui lavoratori, con perdite di posti di lavoro e piani di riduzione dei costi che hanno un impatto negativo sulle condizioni di lavoro».
Se l’obiettivo di rendere il trasporto su strada più sostenibile è incontestabile, sono tre le richieste che i rappresentanti dei lavoratori avanzano all’Unione Europea: in primo luogo «una strategia industriale coerente» per accompagnare la trasformazione del settore automobilistico con investimenti e innovazione, in secondo luogo soluzioni negoziate per «garantire ai lavoratori la transizione da un posto di lavoro all’altro» e, infine, una strategia per l’inclusività «garantendo l’accessibilità economica della mobilità individuale adattata alle esigenze dei lavoratori e delle loro famiglie».
La transizione a una mobilità elettrica mostra d’altra parte anche grandi potenzialità occupazionali, in particolare legata alla filiera delle batterie, dalla produzione al riciclo. Il nuovo regolamento europeo adottato nel luglio 2023 punta proprio in questa direzione, fissando rigorose prescrizioni sul fine vita delle batterie, in un orizzonte di economia circolare. I produttori dovranno raccogliere i rifiuti di batterie portatili (obiettivo 63% entro il 2027 e 73% al 2030) e rispettare livelli minimi di contenuto riciclato nelle batterie industriali, per autoveicoli e per veicoli elettrici: al 16% per il cobalto, all’85% per il piombo, al 6% per il litio e al 6% per il nichel.
È indicativo, in questo senso, che Stellantis abbia scelto l’area di Mirafiori a Torino per inaugurare, nel novembre del 2023, il suo primo impianto dedicato al riciclo. Una parte della fabbrica simbolo dell’automotive italiano è stata destinata a un Hub di Economia Circolare per la rigenerazione di motori, cambi e batterie per veicoli elettrici ad alta tensione, e per il ricondizionamento e lo smontaggio dei veicoli. Sono 170 i dipendenti impiegati nel nuovo impianto, ma si prevede che il loro numero crescerà fino a 550 persone entro il 2025.