White Paper sulla mobilità sostenibile - IX Edizione

Sergio Savaresi (PoliMOVE): la guida autonoma alla base dell’elettrificazione

C’è un settore della mobilità del futuro in cui l’Italia è in pole position. Una nicchia a cavallo tra due mondi apparentemente distanti, ma in realtà più collegati di quanto si creda: la ricerca e lo sport. Quella nicchia prende forma da qualche anno nella Indy Autonomous Challenge, una gara su pista tra auto a guida autonoma progettate e costruite, sulla base del modello Dallara AV-21, da team che rappresentano università e centri di ricerca di tutto il mondo. Alla guida non c’è nessuno, né all’interno dell’abitacolo né a dare istruzioni da remoto: le auto gareggiano da sole, governate da sensori e algoritmi.

Sergio Matteo Savaresi, professore al Politecnico di Milano, dove dirige il Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, guida la squadra Polimove. Il team italiano ha vinto la gara di battesimo di questo campionato sui generis, disputata il 7 gennaio 2022 a Las Vegas, ha fatto il bis il 16 novembre dello stesso anno a Fort Worth, in Texas, e ha messo a segno una tripletta vincendo ancora il 7 gennaio 2023, di nuovo a Las Vegas, nell’ambito del CES, la fiera tecnologica più grande al mondo. Un punto d’osservazione privilegiato, quello di Savaresi, per guardare alle rivoluzioni che attendono la mobilità nei prossimi decenni.

Professor Savaresi, qual è il senso della Indy Autonomous Challenge per chi, come lei, è impegnato nella ricerca sulla mobilità del futuro?

«È una piattaforma di sviluppo che permette di testare la tecnologia. Toccando velocità molto elevate, con veicoli molto vicini tra loro, costretti a competere e a interagire con le reazioni imprevedibili degli avversari, si esplorano i limiti della tecnologia. La resistenza dei sensori, la capacità di calcolo, i tempi di reazione: tutto è portato al limite. Le auto viaggiano a una velocità di 100 metri al secondo, e i risultati raccolti in queste situazioni estreme poi possono essere riportati alle velocità normali, quelle che rientrano nel codice della strada. E poi, certo, Indy Autonomous Challenge ha anche un elemento di spettacolarizzazione».

Quale modello di mobilità sostenibile si affermerà tra 20 anni?

Il modello a cui tendere è quello di una riduzione notevole del numero delle auto di proprietà privata. Non è una mia opinione personale, ma una visione su cui c’è un ampio consenso in ambito scientifico. È difficile prevedere, oggi, se sarà tradotto in realtà tra 10, 20 o 40 anni, ma la sua realizzazione è probabile, e auspicabile per diverse ragioni. Chiaramente si tratta di un modello rivoluzionario nel quale c’è chi vince e c’è chi perde, tra i vari stakeholder del sistema della mobilità. Oggi il modello prevalente è quello della mobilità personale basata sull’auto di proprietà privata: in Italia circolano circa 40 milioni di auto private su 60 milioni di abitanti, con 70 vetture ogni 100 abitanti. Un numero enorme di auto, peraltro poco usate: la media dei chilometri percorsi per anno è al di sotto dei 10mila chilometri, un numero molto basso.

Come si sposa l’attuale modello con la progressiva uscita di scena dei motori termici alimentati con carburanti fossili?

Molto male: le auto elettriche oggi sono alimentate da batterie con una durata tra le 1200 e le 1500 ricariche. Per dirla in altri termini, un veicolo elettrico con 500 chilometri di autonomia per ogni ricarica può percorrere nel suo ciclo di vita tra 600 e 700 mila chilometri. Un numero molto alto, praticamente impossibile da percorrere da un utente privato seguendo l’attuale trend di utilizzo. Ma tale sotto-utilizzo non sarà sostenibile per motivazioni economiche e di gestione delle risorse, a causa della scarsità e del costo elevato delle materie prime necessarie per fabbricare le batterie, come il litio, le terre rare e il rame. La strada da seguire quindi sarà quella di avere in circolazione meno auto e più utilizzate. Dovremo quindi andare verso un modello di servizio che possiamo chiamare, semplificando, “car sharing”. Detto in modo più preciso e sofisticato: “mobility as a service” (MaaS) o “mobility on demand”. In questo quadro l’auto in condivisione diventerà un elemento di un sistema di mobilità integrata che comprenderà altri mezzi di trasporto elettrici quali il treno e la bicicletta condivisa. Per l’auto privata resterà una nicchia di mercato “emozionale”, legata al piacere estetico e della guida, non più a un utilizzo quotidiano di massa.

Quale ruolo avrà, in tale scenario, la guida autonoma?

Apparentemente elettrificazione e guida autonoma sembrano due cose slegate, perché i car makers intendono quest’ultima come un gadget avanzato per la mobilità privata, che aumenta il livello di sicurezza della guida ma non cambia la sostanza. In realtà la tecnologia della self-driving car sarà rivoluzionaria se diventerà la tecnologia abilitante per diffondere la MaaS su larghissima scala. Il car sharing per come lo conosciamo oggi ha una fortissima limitazione: l’utente deve andare a prendere l’auto dove questa è parcheggiata, con la conseguenza che per dare un alto livello di servizio serve un numero molto alto di auto sparse sul territorio. Se l’auto è troppo lontana dall’utente, il servizio non è più vantaggioso. Per questo il car sharing oggi è limitato a poche città, grandi e dense: in Italia di fatto solo Milano è adatta a questo modello, Roma è molto grande ma è molto estesa, e le piccole e medie città non hanno dimensioni sufficienti. La tecnologia della guida autonoma permetterà di ribaltare il sistema: non sarà più l’utente a cercare l’auto, ma l’auto stessa, guidando in autonomia, lo raggiungerà dove questo si trova. Che poi durante il servizio a guidare sia il computer di bordo o il passeggero, in fondo è secondario. L’importante è che la guida autonoma sia attiva nella fase accessoria, quella in cui si raggiunge il cliente: così facendo una singola auto riuscirà a percorrere un chilometraggio molto maggiore, ci sarà bisogno di meno auto sul territorio e i costi si abbasseranno drasticamente, rendendo possibile un utilizzo davvero di massa del car sharing. Tale modello si presta bene anche per i veicoli tradizionali alimentati da motori termici, ma è particolarmente adatto per favorire l’elettrificazione, che basandosi sul modello di auto privata individuale avrebbe poco margine di crescita.

Quali sono i principali ostacoli alla diffusione della tecnologia della guida autonoma?

Gli ostacoli sono tanti e di natura molto diversa. La principale è probabilmente di tipo culturale, ovvero l’aspettativa che la tecnologia abbia una totale affidabilità, a prova di errore. Mi spiego: oggi lo stato dell’arte è già a un ottimo livello, semplificando un po’ possiamo affermare che un veicolo a guida autonoma in contesti urbani garantirebbe un’affidabilità un po’ superiore rispetto al guidatore medio. Oggi in Italia abbiamo poco più di tremila vittime di incidenti stradali all’anno, il 95% delle quali sono causate da errori umani. Se adottassimo tutti la guida autonoma, avremmo sicuramente meno vittime, ma una quota resterebbe comunque. Dalla tecnologia ci si aspetta però l’azzeramento del numero di vittime. Tale aspettativa culturale si riflette a livello politico e porta a regole molto conservative che, specialmente in Europa, rendono oggi molto difficile fare sperimentazione in questo campo. È un cane che si morde la coda: questi ostacoli rallentano la ricerca, e quindi l’affinamento della tecnologia, allontanando la sua reale applicazione. Ciò avviene anche dove le norme sono più permissive, come a San Francisco, dove nell’agosto del 2023 è stata autorizzata la circolazione dei robotaxi delle compagnie Waymo e Cruise, ma pochi giorni dopo, in seguito a un incidente, è stata dimezzata la flotta a cui è consentito muoversi in città.

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